venerdì 25 luglio 2008

Abraham B. Yehoshua e lo "scambio" di prigionieri

Non sembra diminuire l'intensità del dibattito sull'opportunità di procedere allo scambio di prigionieri tra Israele e i palestinesi. Segnatamente con quei gruppi terroristici come Hezbollah e Hamas che rappresentano un interlocutore "di necessità".La questione è acuita dal fatto che appare irrisolta, o almeno avviata verso una soluzione non rapidissima, la trattativa per la liberazione di Gilad Shalit per il quale Hamas chiede la liberazione non solo di un numero consistente di prigionieri, ma anche quella di persone che si sono macchiate di gravi (e a volte gravissimi) fatti di sangue.Nel dibattito fa sentire oggi la sua voce Abraham B. Yehoshua. Il problema viene affrontato analiticamente e spaziando dalle motivazioni etico-storiche che giustificano questi scambi tanto iniqui, alla questione dei liberati che riprendano a compiere atti terroristici contro Israele, alle "modalità" degli scambi, per giungere fino al contigente problema legato proprio alla conclusione dello scambio che riporterebbe Shalit in Patria.

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Da una parte si sono schierati i propugnatori (e io fra loro) della restituzione dei corpi dei due soldati israeliani (rimasti probabilmente uccisi già nel primo giorno della seconda guerra del Libano) in cambio di alcuni prigionieri libanesi fra cui Samir Kuntar, detenuto nelle carceri israeliani per 29 anni.

Dall’altra risuonava imperiosa la voce di chi si opponeva a questo accordo, sia da un punto di vista politico che etico. Tale divisione non ricalcava il tradizionale dualismo politico, ossia la destra contraria allo scambio e la sinistra a favore. Anche personalità politiche e del giornalismo, solitamente di idee moderate, si sono espresse con grande veemenza contro la consegna di un assassino che aveva ucciso una bambina di quattro anni sotto gli occhi del padre (poi a sua volta trucidato) per riavere indietro cadaveri.

Poiché il dibattito intorno allo scambio di prigionieri non è ancora concluso e Israele dovrà affrontare la domanda se è giusto e lecito liberare 400 prigionieri palestinesi (tra cui numerosi mandanti ed esecutori di sanguinosi attentati) in cambio di Gilad Shalit, il soldato rapito da Hamas a Gaza, vorrei prendere in esame la questione sia da un punto di vista politico che morale.

Quando i primi sionisti si stabilirono nella terra di Israele agli inizi del ventesimo secolo il numero degli ebrei qui presenti era risibile: meno dell’un per cento di quelli sparsi per il mondo. Gli ebrei, infatti, non si azzardavano a trasferirsi nella terra di Israele, tanto lontana e problematica, per prender parte all’avventura della creazione di uno stato ebraico indipendente. Vista la situazione i dirigenti sionisti presero un’importante decisione: chiunque si fosse stabilito nella terra di Israele avrebbe goduto di garanzie sociali e del sostegno economico della comunità. In altre parole avrebbe ottenuto rapidamente un lavoro fisso, goduto di una completa copertura sanitaria, di sussidi di disoccupazione, di garanzie di supporto sociale e di aiuto in caso di bisogno.

Poiché gli ebrei erano, e continueranno a essere, in numero nettamente inferiore ai loro nemici, fu stabilita anche la regola secondo la quale ogni soldato ferito non sarebbe stato abbandonato sul campo di battaglia, ai corpi dei caduti sarebbe stata data una degna sepoltura e non si sarebbero risparmiati sforzi per ottenere la liberazione di prigionieri.

Dopo la fondazione dello stato di Israele le norme che sancivano il sostegno della comunità a favore del singolo si tradussero in leggi e non furono più affidate, come durante la diaspora, alla buona volontà o alla compassione degli altri.

Per questo motivo gli scambi di prigionieri e di caduti tra Israele e gli stati arabi o i vari e numerosi gruppi armati palestinesi sono stati compiuti con la consapevolezza di dover accettare un forte squilibrio numerico. In cambio di uno o due ostaggi israeliani sono stati liberati centinaia di palestinesi, siriani o egiziani.

Questa asimmetria appare però giusta e lecita alla società israeliana. Infatti non solo gli ebrei sono sempre stati numericamente inferiori ai palestinesi e agli arabi ma il valore della vita, ai nostri occhi, si è fatto immensamente più sacro e prezioso dopo la Shoah, le cui vittime, per lo più, non hanno mai avuto sepoltura. Proprio l’anonimato del grande massacro ha acuito e accresciuto la sensibilità verso la peculiarità del singolo, vivo o morto che sia.

Gli arabi, naturalmente, hanno capito questo stato di cose e in tutti gli scambi di prigionieri hanno avanzato pretese altissime, anche nel caso in cui l’accordo comportava la riconsegna di corpi di soldati israeliani in cambio di persone vive.

Il dilemma in Israele non riguarda però la disponibilità a pagare un prezzo elevato per la liberazione dei prigionieri ma tre questioni di ordine morale.

1) I sentimenti dei familiari delle vittime dei prigionieri palestinesi in procinto di essere liberati.

2) La futura prevenzione di atti di terrorismo (la prospettiva di pesanti pene detentive come punizioni per i mandanti o i fautori di attentati potrebbe infatti non essere più un deterrente se costoro sanno di poter tornare presto liberi in scambi di questo tipo. Anzi, questa situazione potrebbe indurre gruppi terroristici a tentare nuovi rapimenti).

3) Il ritorno al terrorismo di alcuni prigionieri scarcerati dopo lunghi anni di detenzione, cosa che ha reso il loro rilascio particolarmente doloroso.

Il problema dei sentimenti delle famiglie colpite dal terrorismo è stato superato dalla società israeliana grazie al principio del sostegno reciproco. Nella maggior parte dei casi, infatti, quelle famiglie non hanno opposto resistenza allo scambio di prigionieri poiché si identificavano con i parenti degli ostaggi, fossero essi vivi o morti. Sono anche consapevoli che i loro cari non sono stati uccisi o feriti per motivi personali ma nella bufera della guerra e in un certo senso un cittadino israeliano rimasto vittima di un attentato terroristico non è diverso da chi cade colpito da una granata o da un missile.

Il secondo dilemma si pone più raramente giacché nella maggior parte dei casi è più facile per i terroristi uccidere che fare prigionieri, o rapire. Se quindi Israele si mostrerà più risoluto nel pretendere le prove che i prigionieri sono in vita, il prezzo dello scambio, per quanto lo riguarda, potrebbe diminuire.

In merito al terzo dilemma ritengo che sia il caso di stabilire a priori una pena particolarmente severa per quei terroristi che, una volta scarcerati, tornino a compiere attentati. Israele obbliga i prigionieri a firmare un documento secondo il quale essi si impegnano a non riprendere un’attività terroristica dopo la loro scarcerazione e, nella maggior parte dei casi, credo che questo impegno sia stato mantenuto. L’idea che dei terroristi che hanno agito per motivi ideologici siano dei criminali potenzialmente recidivi non è dunque corretta.

Non invidio i dirigenti israeliani chiamati a prendere decisioni difficili relative allo scambio di prigionieri. Ma se i principi che governano questo tipo di accordi saranno chiari - a loro e alla società israeliana - tali decisioni si renderanno accettabili sotto un profilo etico>>.

Fonte: "La Stampa" - 24.07.08

1 Commenti:

Alle 20 novembre 2008 alle ore 05:08 , Blogger Unknown ha detto...

Caro Piero P, guardando il tuo profilo ho visto che sei interessato ad Israele, forse ti può interessare che gestisco una mailing-list che si chiama "In Difesa di Israele" ( indifesadisraele@gmail.com )in lingua italiana, se vuoi saperne di più scrivimi.
Ciao
Davide

 

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